Depressione, se bastasse una corsetta…
25 Agosto 2015Leggo, con enorme sorpresa, la storia di Zoe, pubblicata dalle pagine di The Guardian e riportata anche da Huffington Post. Secondo questa storia, che la ragazza ha raccontato anche nel suo blog, lei stessa sarebbe uscita dalla depressione correndo. Letteralmente. Cominciando a camminare prima, poi a correre seriamente. Una storia bellissima, a tratti commovente, se solo fosse vera.
Che l’attività fisica produca endorfine, ormoni che combattono la depressione, è scientificamente provato, ma, francamente, che la si possa combattere o vincere definitivamente solo con una corsa mattutina, mi sembra alquanto improbabile. Non che io sia un’esperta, non sono un medico, tanto meno uno psichiatra, ma, purtroppo, sono una profonda conoscitrice del fenomeno, nelle sue migliaia di manifestazioni e di molti dei rimedi che si utilizzano per tamponarlo ed, in alcuni casi, guarirlo.
A proposito di questa lettera, mi è venuto in mente uno speciale del Fatto Quotidiano dedicato alla depressione, il 13 gennaio 2014. Oltre al fatto che l’intero tema veniva affrontato con imperdonabile superficialità, la cosa più grave era il messaggio lanciato da Caterina Bonvicini, scrittrice, che iniziava col dire: “la depressione è quel groviglio di errori che a un certo punto della vita ti crolla addosso intero. Era tutta colpa mia”. Ecco, questo non è del tutto contestabile. Molti malati di depressione si sentono colpevoli della propria malattia. Resta il fatto che il primo centro del cervello ad essere colpito quando si presenta un episodio depressivo, è quello che controlla la volontà. Non esiste colpa. Un malato di cancro non può dire che è colpa sua, magari perché è un fumatore. Le malattie si presentano e basta. Si tratta poi di curarle. Niente altro. E, nel caso della depressione, non è diverso, è solo più complicato per chi ne soffre nascondere quella naturale tendenza che subentra a volersi rintanare in un angolo fuori dal mondo, per non spiegare i motivi di uno stato, prima fisico e solo dopo mentale, che la comune ignoranza pretende esistano. Non esiste un motivo. La depressione è come le altre malattie, i motivi sono diversi, ma non si può, nella maggior parte dei casi, risalire ad una fonte scatenante.
Perdonate la presunzione, ma, combattendo da circa venti anni con una depressione episodica maggiore, essendo seguita da specialisti eccellenti, avendo precedenti familiari molto seri, credo di conoscere un minimo l’argomento di cui scrivo.
La signora Bonvicini, allora, avrebbe dovuto spiegare ai lettori come mai le signore, giovani e meno giovani e i signori, anche loro di varie età, che vendono roba di diversa natura e provenienza, al mercato sotto casa mia, sono il più delle volte sorridenti, hanno la forza di alzarsi la mattina alle 4 e andare a fare un lavoro che non è il massimo dell’appagamento, per quelli che sono, almeno, i parametri odierni di affermazione sociale.
Altro punto, dunque. Il pezzo dal titolo “L’insostenibile pesantezza del lavoro”, non cito neanche la firma, ma sottolineo che era supportato dall’intervento di specialisti della materia (si sa ormai fin troppo bene che la difficoltà principale nella cura delle malattie mentali, è trovare il medico serio, perché la percentuale è discretamente bassa rispetto a quella dei ciarlatani che si ergono ad esperti facendo danni enormi) si basa su un punto inesistente.
Riprendendo alcuni stralci dello stesso reportage, che, voglio dire, non condanno al 100 per cento, “di sicuro chi si uccide, come ha scritto Forster Wallace, non lo fa per motivi astratti o perché la morte comincia a sembrare attraente, ma nello stesso modo in cui una persona intrappolata si butterebbe da un palazzo in fiamme”. E’ da rispettare una riflessione del genere e sarebbe da considerare, anche parlando di depressione da lavoro.
Il lavoro può accentuare una situazione di disagio, ma non può essere causa di malattia per una persona sana, così come una persona sana non penserebbe mai a togliersi la vita per una delusione lavorativa o di altro tipo. Ecco, tornando a quello che salvo delle quattro pagine che il Fatto allora ha voluto pubblicare – devo ancora capirne bene il perché – a parte queste sporadiche citazioni, come quella riportata sopra, le due colonne d’intervista ad Andreoli sono dignitose. Il professore cita quelle che possono essere le aggravanti, ma dice chiaramente che la malattia va curata con supporto psicoterapeutico e psicofarmaci.
La cosa gravissima dell’intero speciale è la dichiarazione della Bonvicini, che sostiene di aver buttato via tutti i farmaci da un giorno all’altro. Se ciò è vero e, se ritiene sul serio che fossero questi stessi ad ovattare le sue percezioni e non la patologia stessa, allora due sono le domande: quella che lei chiama depressione è stata forse solo una delusione di vita, come tutti noi, prima o poi, ci troviamo ad affrontarne, o, magari, ha avuto la fortuna di uscire dalla malattia improvvisamente, perché, tardi o presto, la depressione finisce? Buon per lei, in entrambi i casi. Una, però, è la certezza: la signora non ha la minima idea di cosa sia la depressione, e credo che neanche la Zoe che dice di esserne uscita correndo, sappia bene di cosa parla.
Sono messaggi pericolosissimi, c’è di mezzo la salute di esseri umani e sono in tanti a soffrire di questo maledettissimo male oscuro.
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