Aborto, quanti ostacoli!
11 Aprile 2016Pubblico di seguito un brano del mio primo romanzo, in cui racconto un’esperienza realmente vissuta, non ha importanza da chi, in uno degli ospedali più quotati nel settore di ostetricia e ginecologia, il Sant’Orsola di Bologna
Quando (Lorenzo, il padre della creatura di cui mi sono appena liberata) mi chiede come mi sento, un fiume di pensieri e parole mi si affolla in mente. Vorrei dirgli quanto sto male, quanto ho tentato di soffocare le lacrime, quanto mi sembra tutto spaventosamente senza via di scampo, quanto ritengo sbagliata quella scelta cui lui mi ha subdolamente obbligato, quanto mi sento vuota, inutile, sbagliata.
“Bene” rispondo “Ho solo un po’ di dolore alla mano”.
Mi guardo la mano sinistra, alzando il cerotto, e vedo una sorta di melanzana, un bubbone viola (…)
(Mia sorella prova a farmi sfogare un po’)
“Dimmi almeno se hai avuto paura, com’è stato, quanta gente c’era in sala operatoria”.
Cerco le parole per dirle l’orrore che è stato, l’angoscia che ho avvertito, per quanto sbiadita dal senso di confusione che non mi ha mai abbandonata.
“Lalla” mi sollecita.
“Non ho avuto paura per niente, senso di squallore più che altro. Quando ci hanno portato via da qui, ci hanno fatto scendere per delle scale, non so bene, non mi ricordo, poi ci hanno parcheggiate in una piccolissima stanza, eravamo tutte insieme, quelle che vedi qui. Era una specie di bagno senza sanitari, con delle sedie attaccate a due delle pareti. Dopo un po’ è arrivata l’infermiera a chiamare la prima di noi, io ero la penultima”.
“Avete parlato fra voi”.
“Non so quanta verità sia uscita fuori, so solo che ho sentito storie sconcertanti e di ognuna di quelle ragazze mi sono chiesta più di una volta quale assurda disperazione potesse averle portate a prendere questa decisione, di cui nessuna sembrava davvero convinta”.
Parlo pianissimo, un po’ per non farmi sentire dalle altre, un po’ perché mi sento priva di energie. Azzurra ha l’espressione visibilmente disturbata da quello che le sto dicendo. E dire che, nonostante la potenza delle parole, non credo di essere riuscita a darle il senso di quel tempo indefinito trascorso in una minuscola stanzetta vuota, piena solo di anime perse imprigionate dentro a corpi floridi.
“Mal comune mezzo gaudio, dicono, per me condividere l’attesa con quelle ragazze è stata una tortura. Non so neanche i loro nomi. Ci siamo raccontate un mare di cose, ma nessuna di noi ha detto il suo nome…”.
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