Depressione: tentiamo di capire cos’è
29 Dicembre 2014Montanelli la chiamava “il sole nero”.
Gassman l’associava al “sottoscala”, dove andava a rifugiarsi nei momenti più critici della malattia. Gervaso, sicuramente altro livello, ma pur sempre nota vittima di questo male, che da poco ha scritto un libro sull’argomento, la definisce “il cane nero”.
Una cosa è certa: dare una definizione precisa della depressione è quanto di più complicato si possa tentare di fare. Basta leggere dell’argomento, per farsi un’idea di come ogni esperto ne dà una definizione diversa e, a quanto pare, anche ogni vittima della malattia.
Cassano, psichiatra di fama mondiale, che ha avuto in cura vittime illustri, quali, appunto, Montanelli, tiene a sottolineare che si tratta di una malattia quasi mai uguale a se stessa. “C’è – dice lo specialista – la forma classica, con perdita di sentimenti e iniziativa, distacco affettivo e sensi di colpa e di rovina. In questi casi ci si sente responsabili di tutto ciò che avviene intorno a noi, ci si sente inutili e inguaribili. Ci sono poi depressioni con deliri persecutori, altre con stato di agitazione e ansia, altre con rallentamento e blocco psicomotorio. In tutti i casi si verifica la perdita di interesse per tutto quello che prima dava gioia e piacere. Sono aspetti diversi di una stessa malattia, che ovviamente richiedono trattamenti diversi”.
Pare che il termine “depressione”, come definizione di una sindrome psichiatrica, sia stato introdotto negli anni ’20 dallo psichiatra tedesco Meyer. Devo dire, a questo proposito, che in Italia non lo si usava ancora a quell’epoca e, in realtà, le malattie di tipo psichiatrico venivano quasi ignorate, si parlava più che altro di esaurimento nervoso. Mia nonna Clelia (1898 – 1984), madre di mia madre, è stata una vittima di questa patologia, passando mesi interi nel suo letto e soffrendo di paranoie di vario tipo. Nessuno, nel suo caso, ha mai parlato di depressione, forse a causa dei pregiudizi e della vergogna che tuttora circondano patologie del genere.
Qualcuno sostiene che la prima descrizione dello stato depressivo risalga addirittura ad Omero, che, quando, nell’Iliade, parla di Bellerofonte, dice: “ma quando viene in odio agli Dei, Bellerofonte solo e consunto di tristezza errava pel campo acheio l’infelice e l’orme dei viventi fuggìa”. Come se, con l’abbandono degli dei, si fosse spento per l’uomo il coraggio e la forza di vivere. E poi arriva il vuoto assoluto e la tristezza divorante in cui l’eroe si logora e allo stesso tempo cerca di divincolarsene.
Anche ad opere pittoriche, come il notissimo Urlo di Munch è stata data una spiegazione in chiave depressiva. Qualcuno ha sostenuto che comunichi la squassante e lacerante angoscia del depresso.
Tutto questo è solo un assaggio. Magari ne parleremo più avanti. In base alla mia esperienza, oltre a dire che io la definisco “il mostro”, senza minimamente volermi mettere a paragone con geni del giornalismo e della letteratura come Indro Montanelli o altri, posso solo dichiarare le mie verità: ad un certo punto della vita, ho iniziato ad avvertire tutte le sensazioni più negative che un essere umano possa immaginare, tutte, sicuramente quelle di cui parla Cassano, dalla prima all’ultima. Fortunatamente non tutte insieme. Ho iniziato con l’astenia più totale, per arrivare alle somatizzazioni più classiche (lo so solo adesso): giramenti di testa, incapacità di ragionare, senso di svenimento, dolore di pancia, mancanza di fame e, a volte, mancanza di controllo nell’ingurgitare cibo. Poi è subentrata l’assenza del ciclo mestruale, durata cinque anni. Tregue varie, grazie al cielo, ma poi ancora disturbi psicosomatici: difficoltà a digerire, debolezza di gambe ed ancora senso d’impotenza nei confronti di qualunque cosa. Giorni della mia vita persi. Buttati in un letto nella totale paralisi e conseguenza inattività e mi fermo qui, perché, ripeto, non voglio esasperare chi mi legge.
Nessuno mi ha mai fatto una diagnosi chiara. E qui arriva il peggio che riguarda le malattie mentali. Credo che, ancora adesso, dopo studi, approfondimenti, ricerche da parte dei più grandi medici di tutto il mondo, non ci sia una visione chiara di questa patologia. Ho consultato molti psichiatri, la maggior parte dei quali mi ha parlato di disturbo bipolare, come quello di cui soffre mia madre. Ma, a quanto pare, nessuno di loro ha indovinato la diagnosi, dal momento che, l’unico e solo psichiatra e psicoterapeuta cui continuo, dopo svariati tentativi, a rivolgermi, sistematicamente, dall’inizio di questa orrenda storia, se pure rifiutandosi sempre di formulare una diagnosi (fa parte del metodo di psicoterapia cognitivo-comportamentale post razionalista di cui lui è stato allievo ed ora docente), eliminando dalle mie cure lo stabilizzatore dell’umore, che cura il disturbo bipolare, mi ha fatto godere di grande beneficio.
Concludo questo pesantissimo brano di analisi di una malattia di per sé pesante, con un messaggio positivo, sempre facendo riferimento alla migliore letteratura del nostro Paese:
Ungaretti, ne “La morte si sconta vivendo”:
“Il miracoloso dono della serenità può essere conquistato sempre in qualsiasi luogo, anche in quelli apparentemente più improbabili e anche nelle situazioni più tristi. E, se non tutto, almeno un po’ ”…
Questa, nonostante tutto, continua ad essere la mia filosofia di vita. Il vedere positivo – certo non nelle fasi acute della malattia, che, purtroppo, continuano a terrorizzarmi, perché da un momento all’altro possono ripresentarsi – e il non arrendermi mai, fino ad ora, mi ha salvata.
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