Abuso sui minori. L’inevitabile, storia di un dramma familiare
13 Dicembre 2020Pubblico uno dei racconti di cui si compone il mio ultimo libro, Qualcosa di superiore
Sono cresciuto in un paesino della Calabria, di cui in molti ignorano l’esistenza. Si chiama Canolo. L’aria è buona, dolce, fresca anche in agosto, la natura rigogliosa e generosa, con i suoi alberi, i suoi fiorellini che spuntano qua e là senza che nessuno si prenda cura di loro. È un po’ così che sono cresciuto io, in una semplicità che definire povertà sarebbe poco e senza che nessuno, a parte mia madre, quando poteva, si prendesse cura di me. Ho qualche ricordo del prima.
C’è sempre nella vita delle persone un prima e un dopo. Il mio prima era avvolto dall’aria angosciante che respiravo in casa, smorzata dalla frescura e dal chiarore del cielo, quando riuscivo ad andare fuori. Casa. Era, in realtà, una specie di capannone, dove il caldo, d’estate, nonostante non si sentisse fuori, rischiava di cuocerci e il freddo, nei mesi invernali, ci paralizzava.
Mio padre era un muratore. La sera rientrava, attorno alle sei, affamato e, se mamma non gli metteva immediatamente un piatto in tavola, iniziava a urlare, sempre attaccato alla bottiglia. «Questo è vino fatto in casa» mi diceva, «assaggialo, non può far male». A me dava fastidio anche l’odore di quella roba e poi non volevo diventare rosso e iracondo come lui. Mio padre, però, bene non stava. Tossiva continuamente e aveva una smania perenne, come di chi nella vita non ha combinato nulla e cerca costantemente di rimediare. Parlava in modo lamentoso, ma violento al tempo stesso, mio padre, anche quando diceva a mia madre: «Ti ammazzo», era un brontolio strascinato dall’ira, qualcosa di poco comprensibile: «Tiiiiiii ammazooooooo». Lì per lì non capivo. Compresi solo dopo, con il tempo. Io cercavo di non sentire quelle urla, che mi terrorizzavano. Andavo fuori, sul retro della casa, anche in pieno inverno, con due o tre coperte addosso e leggevo. Non facevo altro che leggere. I libri li prendevo in prestito alla biblioteca di Locri e non so cosa avrei dato per poterli tenere.
Era stato mio nonno materno a insegnarmi quanto è importante leggere, quante cose si imparano, quanto si può volare alto. «Niente e nessuno» mi diceva, «potrà mai farti volare in alto come un libro». Era vero, Dio se era vero. Solo che, quando mio padre urlava e mi diceva di rientrare in casa, il libro dovevo chiuderlo e tornavo con i piedi su quella terra dove tutto era possibile fare, tranne imparare qualcosa e, soprattutto, volare alto.
Quando avevo nove anni, mi resi conto che mia madre ingrassava ogni giorno di più. La pancia, soprattutto. Quella le cresceva a vista d’occhio. Mamma era bella, somigliava alle madonne dei dipinti che vedevo nelle chiese. Bionda, dolce e generosa. I suoi occhi azzurri s’incupivano solo quando papà le urlava contro. Con me non si arrabbiava mai. «Tu sei il mio angelo» mi diceva. Quel fatto che la vidi ingrassare di giorno in giorno mi apparve alquanto strano. Ma avevo imparato a farmi gli affari miei. Non chiedevo nulla, non domandavo niente. Finché un giorno, mia madre, attorno alle tre del pomeriggio, mi chiamò, urlando dalla cucina dove era sdraiata per terra, raggomitolata in posizione fetale e visibilmente dolorante. «Totò, vai da Elena, subito. Dille di correre qui». Elena era un’infermiera che abitava non lontano da noi. Lavorava all’ospedale di Locri. In quel momento mi sentii venire meno, ma non potevo. Mi misi a correre come un pazzo, in direzione di casa sua, pregando Dio, la Madonna e tutti i Santi, di trovarla lì. Le implorazioni furono ascoltate. Elena era in casa e si precipitò da mia madre, la quale, dopo urla da farmi pensare che la stessero squarciando viva, diede alla luce una bimba bella come il primo sole di marzo: serena, tonda, rosea, indifesa. Mamma era distrutta, stanca, sudata, ma gli occhioni azzurri sprigionavano una luce che raramente avevo visto sul suo viso. Teneva quel batuffolo rosa fra le braccia e mi disse: «Lei è la tua sorellina. Ora dobbiamo trovarle un nome, insieme». «Rosa, mamma, chiamiamola Rosa». «Angelo mio, vedi che non potrei vivere senza di te. È rosa come un bocciolo. E Rosa sia».
Quando papà rincasò dal lavoro, quella sera, s’infuriò più del solito. «Maria, dove sei? Dove siete tutti? Io ho fame, ho faticato tutto il giorno». Mi precipitai da lui e gli spiegai l’accaduto. «Bene, una femmina. Manco a fare i figli è buona tua madre. Ma ora, siccome è nata la bambina, io devo restare senza cena?». «No, papà, mamma ha detto di scaldare la minestra, che è già pronta». «E allora muoviti, Totò, perché io sto morendo di fame».
Al compimento del diciottesimo anno di età, avevo idea di andarmene dal paesello. Volevo studiare. Naturalmente mio padre, quando glielo dicevo, rispondeva: «Studiare, studiare non ti dà da mangiare, a parte che non abbiamo soldi per farti studiare ancora, ma poi vieni a fare il lavoro che faccio io, così abbiamo un altro stipendio». Io non rispondevo e volavo con la fantasia. Avrei potuto trovarmi un lavoro come cameriere e mantenermi all’università e questa specie di progetto mi accompagnò per qualche anno.
Rosa cresceva, bella come la mamma, nel fisico e nello spirito. Aveva già dieci anni, ma per me era l’esserino indifeso che avevo visto appena nata. Non avevamo la possibilità di realizzare una stanza per lei, così aggiunsero un letto nella mia e per un po’ dormì lì, con me. Con il tempo, fui io a lasciarle la mia stanza e dormivo sul divano, tra la puzza di fumo e vino da due soldi che in soggiorno era diventata stantia.
Ultimamente vedevo la mia Rosa diversa dal solito. Era spesso assorta nei suoi pensieri, ma, quando io o mamma le chiedevamo cosa avesse, alzava le spalle e abbassava gli occhi, dicendo: «Niente». Supponevo che avesse assistito a qualche brutta scena tra papà e mamma. Io non le contavo più: lui la picchiava continuamente e dopo aver tentato di reagire una volta, quando avevo solo cinque anni, papà prese a pedate anche me e mamma pianse così tanto e così a lungo che compresi che avrei dovuto far finta di niente. Anche se dentro, ogni volta, sentivo un pezzettino di me che se ne andava.
Una sera, saranno state le undici, io leggevo sul divano aggiustato alla meglio per la notte, pensando che tutti dormissero. Udii la voce ancora infantile di mia sorella, che piangeva e diceva: «Ti prego, no». Sulle prime pensai a un incubo e stavo per andare a svegliarla. Poi, però, quella specie di lamento finì e io credetti che si fosse riaddor-mentata. Dopo qualche minuto, di nuovo: «No, ti prego, lasciami stare. Papà, ti supplico, fammi dormire». Non ci vidi più. Da lì ricordo poco e niente. So solo che mi ritrovai con un coltellaccio da cucina fra le mani in camera di mia sorella e ho impressa un’immagine che non dimenticherò finché avrò vita. Lei, Rosa, era sdraiata nel suo letto con il viso rivolto alla porta, terrorizzato, gli occhi spalancati, smarriti. Mio padre era sopra di lei e faceva dei movimenti inequivocabili con il bacino. Ricordo la rabbia che mi venne su, come qualcosa di non digerito che torna in bocca con sapore amaro, una rabbia che non pensavo di poter mai provare. Poi più niente.
Trascorsi i successivi venti anni della mia vita in carcere: omicidio volontario. Non potevo permettermi un avvocato, così dovetti accontentarmi di quello d’ufficio assegnatomi dal tribunale. Mamma, dopo quell’episodio, stette a letto per un mese. Ma non doveva essere l’accaduto in sé ad aver totalmente scosso il suo sistema ner-voso. Non credo, o forse volevo illudermi non fosse quello che feci a mio padre. Credo fosse così turbata per non essersi accorta di ciò che quell’animale faceva da chissà quanto tempo alla sua bambina. Comunque, mamma e la mia Rosa andarono a stare per qualche mese dai nonni, i genitori di mia madre, che abitavano a Locri, dove si trovava il Centro di Igiene Mentale, che entrambe frequentavano tutti i giorni. Mamma si riprese completamente. La mia Rosa non del tutto. Sul chiarore e l’ingenuità dei suoi occhi si posò per sempre un velo di malinconia.
Quanto a me, non mi diedi mai pace e non me ne do tuttora, ma non per ciò che ho fatto a mio padre. Non ho pace solo per non averlo fatto prima che potesse rompere per sempre l’equilibrio di mia sorella, con i suoi modi bestiali. Non sono stato in grado di proteggerla abbastanza.
Gli anni che avrei voluto dedicare all’università li trascorsi in carcere. Stavo, però, quasi meglio lì che in casa dei miei genitori. Avevo fatto amicizia con una guardia, Nicola, un tipo dolce al di là dell’ap- parenza burbera. Con lui mi confidavo e riuscì a farmi avere addirittura un lumino, alla cui luce, per quanto flebile, potevo leggere tutta la notte. I libri me li procurava mio nonno, che veniva a trovarmi tutti i giorni, nessuno escluso. Divoravo qualunque cosa, storia, manuali di letteratura, narrativa di ogni tipo.
Quando una cosa deve andare in un certo modo, così andrà. Il destino è più potente di chiunque di noi, minuscoli esseri umani. Eppure, il dopo, il dopo quella sera tremenda, il dopo aver scoperto che la mia Rosa era stata violata nella sua ingenuità, il dopo il processo e tutto il resto, furono meglio del prima.
Uscito dal carcere, a trentanove anni circa, m’iscrissi all’università e mi misi a scrivere. Leggevo e scrivevo, scrivevo e leggevo. Sono diventato, in tre anni, assistente alla Facoltà di Lettere di Messina e ho pubblicato già due romanzi. Poi, ciò che deve essere, sarà, al di là di ogni sforzo, al di là di tutto; ciò che deve succedere, succederà.
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