Corona virus come la peste del Manzoni. Ogni epidemia è simile alle altre
8 Aprile 2021Corona virus come la peste del Manzoni. Ѐ un paragone che ricorre spesso, spessissimo anzi, quello tra l’epidemia descritta dal Manzoni nel suo capolavoro e quanto si sta verificando a partire dal marzo scorso in tutto il mondo.
Io vorrei, però, approfondire un tema ancora più scottante: le sofferenze della malattia e della morte, anch’esse estremamente paragonabili. Per farlo, chiedo aiuto ad un racconto del mio ultimo libro, “Qualcosa di superiore”. Il racconto si chiama “Se questa è vita” ed ha risvolti crudi, brucianti nell’affrontare i temi della malattia e della morte.
Se questa è vita
«La cosa più tremenda delle neoplasie non è il tasso di mortalità. L’aspetto davvero atroce sono le sofferenze che esse portano nello stadio terminale». Me lo aveva detto il medico che affianco per il tirocinio in cure palliative e terapia del dolore, il dottor Paolo Gentile; mi aveva avvisata, aveva tentato, in qualche modo, di prepararmi. Ma le sofferenze umane sono cosa cui non si è mai preparati fino in fondo. «Prego, dottore, entrate. Vi offriamo qualcosa». Ci apre la porta una donna intorno ai quarant’anni, graziosa, ben vestita, truccata con cura, i capelli messi perfettamente in una piega ondulata. Ci fa entrare in un grande soggiorno, ben arredato, con vista sulle campagne e infine sull’azzurro del mare. Attorno a un grande tavolo di legno chiaro, un’altra donna, anche lei molto gradevole e due bambini, di circa sei e otto anni. Sul divano, sotto la grande finestra, un uomo magrissimo e abbronzato in modo forzato, sembra colore da lampada UVA, più che di sole. Anche lui è tirato a lucido, come dovesse andare a una cerimonia: capelli pieni di gel o Dio solo sa cosa, gemelli ai polsi, anello al mignolo della mano destra, oltre a una vistosa fede sull’anulare sinistro. Accanto a lui, una donna di dimensioni sproporzionate, sembra sia stata gonfiata da una pompa, più che dalla chemioterapia. Un cappello di lana da cui s’intravede il cranio calvo, un pigiama elegante; ai piedi, calzettoni in tinta, niente altro. Con quel gonfiore non le entrerebbe neanche un quaranta.
«No, grazie, niente. Vi presento la dottoressa Laura Schiavi, fa tirocinio per la specializzazione. Signora, allora, come va, come si sente?».
Silenzio.
«Dottore, purtroppo mamma non sente più, quasi niente».
Paolo si avvicina, si siede accanto a lei, sul divano, vicino vicino.
«Signora, come si sente?».
«Così dottore» si mette una mano sulla testa, «mi fa male la testa».
«Tranquilla, signora, ora facciamo passare tutto». Poi rivolto alla donna che ci ha aperto la porta: «C’è una cartella clinica?».
«Sì, certo. Eccola».
Paolo la legge con attenzione, mentre con un gesto mi fa segno di avvicinarmi. Quello che leggo mi dà conferma dell’impressione iniziale. Direi a occhio che la paziente non supererà il mese.
«Beh» dice Paolo, «la situazione sembra buona, nel senso che la malattia si è cronicizzata a questo stadio. Signora, tranquilla» dice avvicinandosi di nuovo a lei. Le stringe la mano. «Ci accompagnate sotto?» chiede poi, rivolgendosi ai figli, l’uomo lampadato e la donna che ci ha aperto la porta.
Non ho capito niente, penso. Oppure Paolo è impazzito. Non dico una parola, il mio ruolo è quello di osservare e ascoltare. Scendiamo le scale e la donna fa per aprire il portone d’ingresso.
«Dovrei parlarvi un attimo» dice Paolo.
«Certo» dice la donna, «usciamo insieme o volete accomodarvi a casa mia, è qui al piano terra».
«Forse è meglio, signora».
«Prego, certo».
Entriamo in un’altra bella casa, arredata con cura e gusto. Sul divano, davanti alla tv, un uomo rubicondo e una bambina sovrappeso, di circa quattro anni.
«Buonasera» dice Paolo, «potete lasciarci per qualche minuto per favore?».
«Certo» risponde l’uomo, mentre spegne la televisione, «vieni, Maria, andiamo di là».
Ci sediamo attorno a un tavolo.
«Allora» inizia Paolo, «cancellate tutto quello che ho detto prima. La situazione è estremamente grave. Mi sono spiegato?».
«Sì» dice la donna, «avevo intuito».
«Quanto grave?» chiede l’uomo lampadato. «Quanto le resta?».
«Questo non lo può dire nessuno. Potrebbe morire stanotte, come reggere sei mesi. Il mio obiettivo è solo farla stare meglio, alleviarle ogni sofferenza. È invasa dal cancro, ce l’ha dappertutto, ma le cure palliative servono a questo, ad alleviare dolori e sintomi di qualunque tipo».
«Ho capito» dice l’uomo.
Non ha capito affatto. Ha l’aria di chi sta pensando: Questo è un incompetente, appena va via chiamo un altro medico. Ma si vedrà dopo, in base a come procederà il piano terapeutico, a Paolo interessa poco. Lui ha solo bisogno di illustrare la situazione, la verità. La sua etica glielo impone e, per quanto cruda essa sia, lui la mette davanti agli occhi dei familiari dei pazienti, così nuda e cruda com’è.
«Come stai?» mi chiede Paolo, una volta in auto.
«Bene, bene, tranquillo».
«Sicura? Non è che ti va giù l’umore, non è una cosa facile, questa».
«Decisamente non lo è. Posso solo dirti che mi fa venire più voglia di vivere di quanta ne abbia mai avuta».
«Davvero?» ride.
«Sì».
«Anche per me è così».
*
Quelle ore, quelle mattine, quei pomeriggi, quel tempo investito per la sua specializzazione, per il suo futuro, scorrevano lisci come l’olio, fra un dramma e un altro, fra una tragedia familiare e una sofferenza insopportabile, fra minuti trascorsi in auto a chiacchierare, tempi indefiniti di piacevole vita, resa ancora più viva dalla morte che ci si lasciava alle spalle. Tutto quell’orrore, già ampiamente studiato, vissuto direttamente su pazienti in carne e ossa, tutta quella morte sfiorata o toccata, le avevano ridato una voglia di vivere che non avvertiva da tempo immemorabile. E le ore si accumulavano. Di conseguenza, i giorni e i mesi. Tutti i santi giorni accanto a quell’uomo, un bravo medico e attento ascoltatore, oltre che eccellente interlocutore.
«Prego, dottore, faccio strada» erano state le uniche parole civili pronunciate da un uomo che aveva tutta l’aria, già per telefono, poi dal vivo, di non avere niente di civile. Erano a Platì, quel giorno. Paese potenzialmente ridente, non fosse per gli abitanti. Solo musi lunghi fino ai piedi, facce losche, occhiali da sole scurissimi e sigari e braccia fuori dalle auto e teste prive di casco alla guida di moto e motorini. Li fece accomodare in casa. Quattro metri per quattro: corridoio, una camera da letto e una minuscola cucina, da cui si accedeva probabilmente al bagno, infuocata da un forno a legna, tenuto acceso al solo scopo di riscaldare l’ambiente. Su una poltrona, in un angolo del minuscolo ambiente, sedeva il malato, il padre dell’uomo che aveva tentato, invano, di mostrare un discreto grado di civiltà. Il malato aveva un’età indefinita, tra i sessanta e i settanta, un cappellino di lana sulla testa, una sciarpa sul collo, fino quasi al labbro inferiore, una fasciatura sulla guancia sinistra, che appariva assai più prominente della destra.
«Allora, come si sente?» chiese Paolo.
L’uomo iniziò a muovere le labbra e insieme gli arti e le sopracciglia, ma non si sentiva alcun sonoro.
«Va bene, non si sforzi» disse il medico, avendo compreso la situazione.
Il figlio ci espose il problema fondamentale. L’uomo era stato operato alla trachea presumibilmente, suo figlio non entrò nel merito e ora nessuno voleva cambiargli la cannula che gli consentiva di respirare. Paolo chiese di vedere una cartella clinica. Ero seduta alla destra del malato, la moglie gli tolse la fasciatura per far vedere al medico cosa essa proteggesse. Ed ecco che venne fuori una protuberanza delle dimensioni di una mela, sanguinolenta e irregolare, che sporgeva in modo impressionante dal profilo.
«Bene» disse Paolo, dopo aver letto con attenzione la cartella. «Per la cannula non c’è problema, posso cambiarla io, purché veniate in ospedale».
Il figlio ci accompagnò fuori, fino alla macchina.
«Avete capito come stanno le cose?» chiese Paolo.
«Credo di sì, dottore».
«È molto grave, le metastasi gli hanno invaso tutti gli organi vitali. È per questo che nessun medico si prende la responsabilità di cambiargli la cannula. La cosa potrebbe essere fatale».
«Mi prometti una cosa?» gli disse Laura, appena saliti in auto.
«Dimmi».
«Se mi riduco in quelle condizioni, mi fai un’iniezione per farmi morire prima possibile?».
«Fai la stessa cosa con me».
Scoppiarono a ridere.
*
Da circa un mese e mezzo Laura aveva sospeso il tirocinio, chiedendo un permesso per malattia, a causa di una forte debolezza di gambe, che spesso le impediva addirittura di reggersi in piedi.
«Non può essere niente di grave» le disse Paolo, durante una telefonata, «ma io, fossi in te, farei una total body, così, per fugare ogni dubbio».
«Sì, forse hai ragione. È da un po’ che ci penso, ma a te posso dirlo, ho una paura tremenda».
«Ma che dici, Laura, sei giovane e in piena salute».
«No, Paolo, qualcosa non va. Lo so, non è una roba da niente».
Il risultato della TAC le diede ragione. Adenocarcinoma polmonare non a piccole cellule, con metastasi in tutto l’apparato toracico. Colpo dritto al cuore. Non sapeva come fare per dirlo alla sua famiglia. Si sarebbe inventata qualunque cosa, pur di salvarli da quella notizia, da quella condanna a morte. La sua famiglia era la preoccupazione principale. Suo marito e i suoi genitori. Un pensiero fisso, asfissiante, più del male stesso. Poteva sfogarsi solo con Paolo.
«Dimmi cosa vuoi che faccia e io lo faccio».
«Non lo so, Paolo, so solo che è molto diverso da come lo percepivamo».
«Beh, immagino».
«No. Non è possibile immaginare, dammi retta, trovarcisi è un’altra cosa. D’altra parte non è possibile immaginare niente se non ci si passa, figurati una cosa così delicata».
«Lo so».
«Io non voglio morire. Voglio vivere tutto quello che ho da vivere».
«Come vuoi. Mi sembra una decisione molto intelligente e saggia. L’intervento vuoi farlo? Il talcaggio, dico».
«No. Sai meglio di me che abbrevierebbe il tempo che mi resta. E soprattutto ne peggiorerebbe la qualità».
«E quindi, lo sai cosa rischi, no?».
«Lo so, certo che lo so cosa rischio. Quello che accadrebbe comunque. Quando sarà il momento, saprò bene cosa fare, non voglio chiederlo a te».
«Ma…».
No, no, fermati, davvero. Adesso vado a casa, da mio marito, come se niente fosse. Poi, quando sarà, saprà anche lui e anche i miei genitori. Sicuramente non gli farò passare quello che le famiglie passano in circostanze simili, ma voglio stare con le persone che amo il più a lungo possibile e voglio farlo in serenità.
*
Due mesi dopo, una mattina, il marito trovò Laura morta nel letto. Non respirava più. Era ancora rosea, esattamente come quando stava bene e aveva, sul viso, un cenno di sorriso.
La vita è bella anche perché contrasta con esperienze così scottanti, insopportabili, tanto che quando la morte arriva si prova un inaspettato sollievo. La nostra vita, in questo momento è bella, nonostante le varie limitazioni cui siamo costretti, nonostante le mascherine, nonostante non possiamo toccarci. La nostra vita è bella. E’ bella perché, intanto, c’è.
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