Aborto, lutto in piena regola
25 Marzo 2016In auto verso Roma (da “Una finestra dul mondo”) – parte seconda
Fino a ieri mattina avevo qualcosa che mi cresceva in pancia, lo sentivo, ne avvertivo un po’ il fastidio perché ero perennemente stanca e mangiavo a fatica, con quel continuo senso di nausea. Ieri sera la creatura è morta. L’ho sentito chiaramente. Le perdite, che da giorni mi avevano costretto a letto, hanno cambiato colore e intensità. Ero sola, ieri sera, come dall’inizio di questa storia. Chiusa in quella stanzetta ricavata nel tetto di uno degli alberghi di Fernando. Una mansardina piccola quanto squallida, dove lui veniva solo per dormire o farsi la doccia, io stavo perennemente, da giorni.
Quando ho sentito di aver abortito stavo per impazzire, non sapevo se urlare o graffiarmi la faccia, perché avevo perso la cosa cui avessi tenuto di più in tutta la vita. Il primo istinto è stato chiamarlo, in fondo era il padre. Ma in fondo era il padre anche quando io mi sfogavo con lui per il terrore di perderlo che avevo e lui mi diceva e smettila, come sei pessimista. Era il padre anche quando, dopo che il ginecologo mi aveva raccomandato il riposo più assoluto, lui voleva portarmi fuori a cena. Era suo padre quando gli facevo notare tutte queste cose e s’imbestialiva, dicendo non ne posso più, sei diventata un’accusa continua.
Non l’ho chiamato, quella sera, tanto mi avrebbe detto stai tranquilla, non è niente e sarebbe rimasto in giro per i suoi locali a “lavorare”. Mi sono sempre detta che sarebbe stato bello lavorare in quel modo.
No, non l’ho chiamato. E non ho urlato. Ho deciso di farmene una ragione, ho messo da parte tutta quella paura e quel dolore e mi sono messa a dormire.
Stamattina le perdite sono ancora più forti. Chiamo il ginecologo, quello di cui ho dovuto decidere di fidarmi in questo posto sperduto e mi dice che deve vedermi. Fernando si ritaglia un po’ del preziosissimo tempo che normalmente dedica all’azienda e mi trovo seduta davanti a quel tizio, con il padre di quello che sarebbe stato nostro figlio accanto. Lo sguardo del tizio si fa sempre più cupo, io non dico una parola, non chiedo, non mi agito, so bene che dirà che è morto.
“Il cuore si è fermato purtroppo”. Fernando ha il viso sconvolto, gli si riempiono gli occhi di lacrime. Non dice niente.
“Ok” dico io “che dobbiamo fare?”
“Se vuole facciamo subito i prelievi e domani tornate per fare il raschiamento”.
Lui non dice una parola. Ora che si rende conto che non sono esagerata, che non mi lamento tanto per fare, che il suo ottimismo ha a volte a un che di fastidiosamente infantile, sta zitto. E sta zitto fino a Roma, salvo a dire partiamo non prima delle 4, ho una marea di cose da sbrigare. Io mi tengo i miei dolori, il mio dolore e aspetto. In auto ogni tanto sembra prendermi in giro. Mi chiede come va. Credo che la mia faccia parli chiaro. Ma io gli dico va. Dopo di che silenzio, per tutto il viaggio, a parte le telefonate di lavoro, che affronta come se niente fosse, come non fosse sua la creatura che si sta frantumando nelle mie mutandine.
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