Dietro la porta
2 Marzo 2015(Un assaggio del mio prossimo romanzo)
Questa storia inizia da lontano, da molto lontano, nel tempo, nello spazio e in ogni altra possibile accezione che questa parola può avere. Questa è una storia che parla di normalità, di legami familiari, di amore, di odio, di dolore e grandi gioie, di malattia, di follia, di sofferenza acuta e di piaceri immensi. Questa è una storia reale, come ce ne sono tante. E, come per tutte, se letta con la giusta criticità e una ponderata distanza, si spiega da sé, come tutto, in fondo, si spiega. Non c’è nulla che sia così assurdo quanto può apparire a primo impatto. Non c’è evento, sensazione, dolore, nella vita delle persone, che non possa essere spiegato, analizzato e, il più delle volte, compreso. Quando qualcosa, che sia un oggetto, un vegetale, un essere umano, ha una falla, c’è sempre una spiegazione che spesso viene da molto lontano.
La persona che mi ha raccontato questa storia, chiedendomi di scriverla, è una persona molto rispettata e ammirata, da alcuni addirittura invidiata ed ha una famiglia apparentemente perfetta. Apparentemente, appunto. In realtà una delle sue figlie ha una falla, grossa più di una casa, più di un condominio, più di un’intera città, una falla che le ha colpito il cervello e non vuole mollarlo, non vuole rimarginarsi, non vuole chiudersi per alcun verso. Questa falla è una malattia che si chiama depressione. La domanda che questa persona, a me molto vicina e molto cara, tanto che definirla amica sarebbe riduttivo, la domanda – dicevo – che continua a porsi, ed io con lei, pur dopo averne capito ed analizzato le origini, pur dopo aver scoperto in quale, lontano ramo della sua famiglia, ha iniziato a divorare cervelli, in passato dichiarati irrecuperabili, è la seguente: avrebbe potuto evitare che si aprisse? Magari con comportamenti diversi? O, meglio, si sarebbe potuta allontanare, almeno negli anni, se avesse avuto un contesto esistenziale diverso?
Questa donna, affetta da una malattia che ancora nessuno è riuscito a diagnosticare con esattezza – in quanto esistono diversi tipi di depressione e qualcuno l’ha ritenuta bipolare, qualcun altro semplicemente maggiore, altri ancora, addirittura, non si sono avventati in una diagnosi – ha quaranta anni. Li ha festeggiati qualche mese fa, con pochi, la maggior parte veri, amici, ottime cose da mangiare, preparate più che altro dalle sue amiche, in alcuni casi dalle mani esperte e sempre maggiormente accurate delle loro madri, buon vino, molta allegria, autentica, a suo credere, almeno per quelle quattro ore, forse cinque, in cui si è svolta la serata, una tonsillite che le aveva gonfiato la faccia, anche se, devo dire – naturalmente io ero presente -, non si vedeva, mal di testa tenuto a bada con tachipirina 1000 e una consapevolezza: la sua vita fino a questo punto è stata tremenda e meravigliosa, nobile e sciatta come la ciabatta di un barbone e, soprattutto, vorrebbe che finisse con lei. Pur adorando i bambini, fermandosi ad ogni piè sospinto a toccare fossette e guance rubiconde, manine innocenti e coscette tonde e lisce come la pesca, con la paura remota che qualcuno, prendendola per pedofila, prima o poi la farà trovare con le manette ai polsi, ha deciso che forse è meglio non mettere al mondo qualcuno, se non si è prima capito che l’egoismo e il piacere di avere una vita tra le mani non sono motivi sufficienti.
Questa donna, a quaranta anni, dopo due gravidanze fallite, ognuna per una ragione diversa, ha capito che a tutto c’è una spiegazione e si è data pace. Quel senso di vuoto e privazione che si è trovata a dover combattere per due volte, si è incanalato in energia positiva. Continua ad amare i bambini e a volte fa addirittura tenerezza a se stessa, quando, per esempio, dopo alcune settimane di convivenza con Alice, la figlia di sua cugina, si trova a doverne fare a meno, perché non è sua figlia e le loro vite, inevitabilmente, si separano e le sue espressioni ineguagliabili rimangono solo un ricordo e non ha più le sue manine da sbaciucchiare e scoprire dopo che lei le nasconde per giocare e la vocina tenera e insieme squillante della bambina si racchiude nella sua testa, perché non può più sentirla. Se non per telefono, ma quella è un’altra cosa.
Ha due sorelle, più grandi, di cinque e quattro anni. Anche la loro mente è fallata, più o meno come la sua, solo con sintomi e manifestazioni differenti e assai meno disabilitanti. Anche per loro la persona che mi ha raccontato questa storia, ancora scettica nei confronti di questo tipo di malattie, si pone, ed io con lei, la stessa domanda: si sarebbe potuto evitare?
Ma torniamo alla storia, quella che inizia da lontano. La storia che la persona di cui sto parlando mi ha raccontato con tale meticolosità di particolari, che è come se l’avessi vissuta io stessa, o, quanto meno, come se ne vedessi scorrere le immagini, con tanto di sonoro di voci e suoni ed echi non troppo remoti di sentimenti forti e a volte violenti…
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