Eutanasia, un racconto dedicato a chi soffre e per trovare pace è costretto ad “emigrare”
17 Aprile 2017Pubblico un racconto sull’eutanasia, in memoria di tutti coloro i quali sono stati costretti ad andare all’estero, perché, pur di porre fine ad un’esistenza di sofferenze atroci, cercavano la dolce morte. Nella speranza che la politica italiana pensi il prima possibile a concepire una legge che consenta a queste persone di non soffrire ulteriormente, affrontando spese onerose e viaggi che della speranza verso il suicidio assistito
Senza parole
L’ultimo ricordo che ho di quando potevo muovermi è che istintivamente ho portato le mani in avanti ed ho urlato stai attento. Lui aveva iniziato un sorpasso. Una polo blu, vecchio modello, andava pianissimo davanti a noi e lui aveva una riunione importante. Era in ritardo, come al solito e quella maledetta strada non consentiva una velocità elevata. Mentre stava sorpassando io l’ho visto benissimo, quel pullman pieno di ragazzini, era l’ora di uscita dalle scuole. Non poteva evitarlo. Stai attento, mani in avanti, poi più niente. Vuoto totale per non so quanto tempo. Mi sono svegliata, non so quanto tempo fa, un giorno, un mese, un anno, non riesco a rendermene conto, in un letto di ospedale. Svegliata è una parola grossa. Ho aperto gli occhi e ripreso coscienza ma sono circondata da tubicini e da macchinari infernali dai quali provengono rumori fastidiosissimi. Bip bip bip bip bip
“Ha aperto gli occhi. Dottore, venga, mia sorella ha aperto gli occhi. Lalla come stai?”
Vorrei dirle che non riesco a muovere un arto, che non sento il corpo, ma non riesco a muovere neanche le labbra. La vedo, mia sorella, l’espressione sempre più delusa, prostrata, disperata, ma non so come fare ad aiutarla, a sollevarla, a farle capire che non mollo e che alla fine ogni cosa andrà al suo posto.
“Signora, per favore – dice il dottore, quando arriva, dopo un lasso di tempo che non so definire – può andare fuori gentilmente”
“Sì, certo, vado – dice mia sorella – ma perché non parla, non si muove” la voce si soffoca ad un certo punto e il dottore risponde: “Ora vediamo cosa succede. Vada ora, per cortesia, a tra poco”.
Se riuscissi a parlare gli direi come si permette di cacciare fuori mia sorella, io la voglio qui, non vorrei nessun altro ma lei si siamo la stessa persona io sono Azzurra e lei è me.
In camera restano lui, un uomo sui cinquanta, neanche brutto, brizzolato, occhiali che si vedono appena, viso regolare, gradevole, non fosse per il romanaccio che emette quando parla. Lui e un’infermiera, magra come un chiodo, avrà trent’anni o qualcosa del genere, bionda tinta, viso dolce, naso rifatto, unghie tremende, lunghe e laccate di un fucsia inguardabile. Lui mi si avvicina con una lucetta che mi punta dritta sull’occhio destro.
“Signora, può sentirmi” dice. Sento il suo alito gradevole. E’ un fumatore – il che non mi disturba, non so che darei per fumare adesso – ma si sente il fresco di un dentifricio usato da poco o una mentina.
Vorrei dirgli la sento benissimo, ma non riesco a emettere nemmeno un sibilo.
Lui sposta la luce sull’occhio sinistro, poi me li manipola un po’ credo, perché vedo che le sue mani stanno qualche minuto intorno ai miei occhi. Poi si sposta e non riesco più a vedere che fa. Non posso neanche muovere le pupille.
“Niente – dice lui – non ha reattività. Per ora dobbiamo solo aspettare”
“Mi dispiace – dice l’infermiera – ci avevo tanto sperato. Povera ragazza”
Escono, sento chiudere la porta. Povera ragazza lo dici a qualcun altro. Ma lo sai chi sono io, lo sai la forza che ho, lo sai quante ne ho passate e quante volte ho toccato il fondo e poi mi sono rialzata.
Dopo non molto si riapre la porta. Azzurra mi si appiccica al viso. Sento il suo profumo meraviglioso, che avevamo scelto insieme dopo lunghe ricerche. Che darei per dirglielo. Nei giorni successivi all’acquisto mi chiedeva continuamente se si sentiva. Era diventata un’ossessione, alla fine rideva lei stessa mentre me lo chiedeva.
Ora piange. Lo so che piange, anche se non viene fuori una lacrima. Lei è così, non è mai riuscita a buttarle fuori, le lacrime. Ma io so che ce le ha lì lì, a un millimetro dall’interno di quegli occhi meravigliosi che diventano sempre più belli con il tempo che ci passa sopra. Ora è senza un filo di trucco. Vorrei chiederle perché. Vorrei dirle che tutte le nostre sacrosante regole di vita, come il trucco, i capelli a posto, le mani curate, i vestiti che sembrano indossati per caso e invece sono la conseguenza di ore davanti all’armadio, vorrei dirle che a quelle regole non deve trasgredire solo perché io sono in ospedale. Abbiamo sempre sdrammatizzato così. Io e mia sorella, abbiamo sempre riso sopra ad ogni problema. Mentre pensavamo a come fare per convincere papà a venire a Roma per un ceck up sei mesi dopo l’ictus, lei di punto in bianco se ne usciva: “Senti, parliamo un attimo di cose serie. Sai quella bb cream che ho pagato 120 euro da quella stronza che ne diceva meraviglie? Non mi piace, non mi copre le macchie e mi fa pallone di cuoio”. E io naturalmente le rispondevo a dovere, cercando di non riprendere il discorso di papà.
“Laura – mi dice – io non lo so se mi senti, quel cretino non sa dirlo, dice che bisogna aspettare l’evoluzione per alcuni giorni. Ma io credo che mi senti”
Sento che ha fumato dopo un caffè, è un odore buonissimo. Quanto mi fumerei una sigaretta ora.
“Quindi fai attenzione a quello che ti dico – continua mia sorella – non ci penso nemmeno alla possibilità che tu possa non farcela. Ti devi riprendere. Devi resistere. Devi tornare da me. Fallo per me. Non ti parlo di mamma, di papà, lasciamo stare quel personaggio inutile di fidanzato che ti eri trovata. Ti parlo di me. Farlo per me. Sennò io con chi vado a fare shopping”.
Silenzio. Non parla più, si è allontanata dalla mia sfera visiva. Forse ora piange sul serio. Lo spero, perché le farebbe un gran bene. Mi dispiace più per lei che per me. Più per mamma e papà che per me.
Ora non so quanto è passato da quel giorno. So solo che la situazione non è cambiata, che quel chiodo d’infermiera col naso rifatto continua a dire povera ragazza, che peccato, che i medici hanno parlato di stato vegetativo irreversibile. So che ho rovinato la vita a tutta la mia famiglia, come se non fossero bastate tutte le batoste degli ultimi anni. Ormai so che non mi riprendo e mi sento in una trappola che potrebbe essere eterna. Mi manca tutto adesso, mi mancano le cose più semplici, mi manca dire quello che penso, mi mancano le passeggiate per negozi con Azzurra, mi mancano le sigarette fumate di nascosto da suo marito, relegate nella cucina della sua bella casa, mi manca un bicchiere di vino con papà, gli abbracci con mamma, per andare a fondo a quell’odore unico, odore di mamma che sento tutte le volte che è qui. Spesso mi abbraccia, ma io non posso abbarbicarmi a lei con le braccia e non posso baciare il suo viso liscio. Mi manca leggere, mi manca scrivere e mi manca la possibilità di raggelare anche solo con lo sguardo le persone che vengono qui a compatirmi, la maggior parte, le visite di circostanza che, sai, poverina, cosa le è capitato, beh, io sono andato a trovarla in ospedale.
Sono stanca. Non è una situazione sopportabile, non così a lungo, non so quanto, ma è troppo. E so che darei qualunque cosa purché qualcuno staccasse queste porcherie di macchine e mi lasciasse andarmene in pace. Mi dispiace sempre per loro, per Azzurra, per mamma, per papà, non so come stiano trovando la forza di sopportare tutto questo orrore. Ma ora non ne posso più io, è un inferno. Ora mi chiedo perché Azzurra non fa quello che ci eravamo sempre promesse che avremmo fatto l’una per l’altra, quando ci capitava di vedere uno di quei film dove uno è immobile in un letto e nessuno si degna di aiutarlo a morire.
Me lo dice. Spesso me lo dice. Ma poi mi chiede “E se invece succede un miracolo e ti riprendi? Non so se me la sento, non so che devo fare. Se tu fossi tu, ne parlerei con te. Ma mi hai lasciato sola. Con chi posso consigliarmi”. Me lo dice continuamente, ma io continuo ad essere su questo maledetto letto immobilizzata e mi sembra d’impazzire ogni istante di più e vorrei avere la voce per un secondo solo per chiederle di farlo.
Ma lei sono io. Non c’è mai stato bisogno di parlare tra me e mia sorella. E anche questa volta abbiamo comunicato senza parole perché ora sto iniziando ad avere pace. Quel letto con me sopra lo vedo da lontano, sempre più lontano e sono felice di andarmene via di lì. Vorrei solo trovare il modo per dirle grazie. Ma non serve. La parola per noi era e sarà sempre un di più.
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