Il mio credo: verità e trasparenza
25 Dicembre 2014“Scopri chi sei e non avere paura di esserlo.” Mahatma Gandhi.
“Non scoraggiarti mai”. Salvatore G. Santagata, mio padre.
Devo ammettere di aver scoperto chi sono un po’ tardi. Scoraggiare, non mi sono mai scoraggiata… E questo è il senso di questo sito.
Mi chiamo Danila. Ho 42 anni. Quando ne avevo sette avevo le idee chiarissime su cosa avrei fatto da grande: liceo classico, laurea in letteratura italiana, poi, come professione, giornalista. E’ tutto quello che poi ho fatto. Devo riconoscere di essere cresciuta con il mito di mio padre, giornalista anche lui, in Calabria una firma, una voce rara, personalità pubblica. Non ha accettato le proposte che gli sono arrivate da Milano, dal Corriere della Sera (allora era possibile anche questo), perché aveva già due figlie, con le guance rosse e sane e non voleva che i loro visi si sbiadissero con l’aria del Nord. Non ha mai piegato la testa di fronte al potere. Capo ufficio stampa del Consiglio regionale della Calabria per molti anni, oltre ad aver rifiutato diverse proposte di candidatura in politica, è andato in pensione nel momento in cui una parte politica che già di politico non aveva più niente, è salita al potere pensando di controllare tutto e tutti, stampa compresa. Mio padre ha detto no, grazie.
Quando gli ho parlato dei miei progetti di vita, sin da subito, in tempi non sospetti, ha tentato di farmi cambiare idea, dicendo che il giornalismo stava per morire, che era un mestiere duro e a volte non troppo pulito. Ma, insieme con il “vizio” della scrittura, lui stesso mi ha geneticamente trasmesso una testa di legno che mi ha fatto andare fino in fondo.
Solo da qualche anno ho capito perché cercava di scoraggiarmi e mi sono convinta ancora di più che il grande concetto che avevo di lui non si basava solo sul fatto che fosse mio padre, ma era determinato da un’intelligenza lungimirante ed una capacità di comprensione delle cose superiore alla media.
Premesso che sono soddisfatta di ciò che sono riuscita a fare, senza l’aiuto di nessuno (mio padre si sarebbe fatto tagliare un braccio più che chiedere un “favore”), mi sono trovata alla soglia dei 40 a non capire più dove stessi andando. Nonostante il lavoro “prestigioso” che avevo (ufficio stampa in un gruppo parlamentare alla Camera), ero perennemente insoddisfatta, lacerata dalla voglia di fare, tarpata sistematicamente dal sistema. Il mio credo e ciò che penso sia il dovere di un giornalista serio è dire la verità. In politica verità è una parola sconosciuta, evitata, spesso temuta. Dopo otto anni di lavoro, molto faticoso e, soprattutto all’inizio, scarsamente soddisfacente, sono arrivata a trascinarmi in quel meraviglioso palazzo esclusivamente pensando al 27 del mese. Questa era l’unica cosa che mi dava la forza di andare al lavoro.
Quando ne ho parlato con mio padre, la sua risposta è stata “no, gioia mia, non va bene, così ti ammali”. In effetti mi sono ammalata, in realtà si è solo aggravata la patologia di cui soffro da quando avevo circa 27 anni. Una malattia che non auguro al mio peggior nemico: depressione unipolare maggiore. Dopo lunga e sofferta riflessione, così, ho deciso di mollare tutto.
Adesso, quando arriva il 27 del mese, sul mio conto corrente non succede niente, ma, tutte le mattine, quando mi guardo allo specchio, in realtà anche prima di farlo, so bene chi sono e non ho paura di esserlo. La mia religione è la trasparenza e la verità, a qualunque costo, con l’unico limite del rispetto che devo alla deontologia professionale che vincola il mio mestiere. Guardo avanti con fiducia e speranza, non mi scoraggio, perché so che la strada della verità è l’unica che possa portare da qualche parte, anche, soprattutto forse, in un paese come il nostro.
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