Legge Basaglia. Scandalo Umberto I Roma: “è un inferno”. Manicomi hanno chiuso sul serio?
1 Novembre 2018Le dichiarazioni shock di Roberta, 30 anni, malata di depressione. A 40 anni dalla legge Basaglia, i manicomi hanno solo cambiato nome; sostituiti dai reparti psichiatrici ospedalieri, la maggior parte dei quali, come nel caso del Policlinico Universitario della Sapienza di Roma, quasi in nulla differiscono dalle “gabbie per matti” che non dovrebbero più esistere
Legge Basaglia. È il 1968 quando, nel documentario Rai “I giardini di Abele”, Sergio Zavoli chiede a Franco Basaglia: “È interessato più al malato o alla malattia?” e lo psichiatra risponde: “Decisamente al malato”. In questa ormai nota affermazione sono racchiusi il pensiero e l’opera di Franco Basaglia (https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/05/13/minteressa-piu-il-malato-della-malattia-cose-rimasto-della-legge-basaglia-40-anni-dopo-tra-rischio-carcere-e-liste-dattesa/4349769/), colui che, amando la sua professione, si prefisse di chiudere i manicomi. Impresa nella quale pensò di potersi professare vincitore quando il parlamento approvò la legge 180, che da lui prende il nome, il 13 maggio 1978.
A 40 anni dall’approvazione della norma sulla chiusura dei manicomi, siamo andati a vedere cosa accade nei reparti ospedalieri psichiatrici, in particolare abbiamo visitato, attraverso gli occhi di Roberta, uno dei nosocomi maggiormente quotati della Capitale, quello Universitario della Sapienza, il Policlinico Umberto I.
Roberta, 30 anni, vive a Roma da quando ne aveva 18. Ricercatrice universitaria, combatte con la depressione sin da ragazzina.
“Pensavo di aver toccato il fondo, anche più di una volta, ma quando ho visto quell’inferno, ho dovuto ricredermi”.
Le va di raccontare quell’esperienza, dall’inizio?
“Dopo una serata con amici, durante la quale bevo in allegria, un po’ più del solito, rientrata a casa inizio ad avvertire quella maledetta angoscia che non so come descrivere” ci dice Roberta. “Va avanti da troppo tempo, sono arrivata al punto di non sopportazione. Quella sera ero seriamente intenzionata a metterci un punto”.
Ci parli dell’arrivo in ospedale
“Arrivo a destinazione barcollando e sanguinando, sostenuta da un amico, che chiama il 118 e riesce ad infilarsi in ambulanza. Finisco sotto le mani dei medici con tanto di codice rosso. Analisi di routine, dopo le quali mi si presenta una psichiatra, o, almeno, sedicente tale. È quanto meno singolare che un bravo medico scambi per tentativo di suicidio una goffa richiesta d’aiuto: un graffietto sul braccio e un tasso alcolemico alto nel sangue”.
Il graffio da dove proveniva?
Mi sono tagliata, con un coltello da cucina, non era la prima volta. Forse poteva essere l’ultima…
Roberta ha due enormi occhi azzurri, pieni di dolore, sempre di più, man mano che parla e ricorda.
Può continuare con il suo racconto?
“Certo. Dopo essere stata all’inferno, sono in grado di sopportare qualunque cosa. La dottoressa, dunque, mi propone di passare la notte lì con loro, sotto osservazione e “domattina faremo una chiacchiera per capire meglio” dice. Accetto perché la disperazione e lo smarrimento sono tali da farmi pensare che non ho nulla da perdere. Ed ecco che il portone del reparto psichiatria mi si spalanca davanti. Tanfo di urina, medicine e sudore a parte, in infermeria mi viene perquisita la borsa, sequestrato il portafogli, i lacci delle scarpe che porto, medicato il graffio sul braccio con tale violenza da farmi male, nonostante si tratti di una “ferita” superficiale. Un monitor riprende ogni angolo del reparto. Chiedo di usare un bagno: le condizioni igieniche sono tali che definirle disastrose è un eufemismo. Subito dopo, l’infermiera mi accompagna sino a quello che sarà il mio letto, vicino alla finestra di un’enorme stanza dove altre quattro donne dormono già, rumorosamente. È tale il loro russare, oltre alla scomodità del letto e il ronzio delle zanzare, che alle 4 di mattina apro gli occhi ed inizio a guardarmi attorno. Tutto fermo fino alle 6”.
Cos’è che la spinge a parlare d’inferno, a parte la sporcizia?
“Quella è l’ultima cosa. Pensavo sul serio che i manicomi fossero chiusi, che stupida. La cosa peggiore, per me almeno, è il modo in cui vengono trattati i “malati”. A parte la chiacchierata che avrei dovuto fare con la dottoressa della sera prima, che il giorno dopo si è trasformata in una stronza e la mia dignità è finita sepolta sotto la sua convinzione che fossi fuori di testa… C’era una ragazzina che piangeva disperatamente dopo la visita mattutina dei medici. Ne ha seguito uno per tutto il corridoio, per poi vedersi sbattere in faccia la porta”.
Crede che all’Umberto I non vengano date le adeguate attenzioni ai pazienti?
Attenzioni? In quel reparto psichiatrico, hanno eliminato catene e camicie di forza, sostituendole con bombe di sedativi. Ecco perché russavano tutte, quelle povere donne…
Gli occhi di Roberta sono sempre più smarriti, non ho il coraggio di chiederle altro, anche se in precedenza mi ha raccontato altri particolari inquietanti, come il fatto che uomini e donne stessero nello stesso reparto. È lei, però, a parlarmi ancora
“In quell’inferno, come in molti altri reparti ospedalieri temo, i pazienti sono solo dei matti da tenere a bada. A nessuno importa della loro sofferenza, di quale patologia li affligga, i medici pensano solo a sedare, situazioni e persone. Esseri umani trattati come carne da macello. Non credo che potrò mai liberarmi di quell’incubo e tuttora non faccio che pensare ai pianti disperati di quella ragazzina, avrà avuto non più di 20 anni. Magari sarebbe bastato l’antidepressivo giusto o addirittura la carezza di un familiare…”.
Se Basaglia fosse ancora tra noi, si dannerebbe per ciò che è stato fatto della sua battaglia, nell’interesse del malato. Interesse di cui, oggi, nelle strutture sostitutive dei manicomi, non c’è più traccia…
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